La ferita silenziosa
Ha vagato per tutto il giorno a piedi nudi in questo scheletrico paesaggio. I vetri rotti, i pezzi arrugginiti delle lattine e i ferri contorti non sono stati in grado di ferirla. La vera ferita si sta aprendo ora, alla fine della giornata. È quando il freddo della notte comincia a calare sulla pianura soglia e desolata, un’amalgama di detriti che si allunga fino all'orizzonte, che si rende conto di non avere trovato nemmeno un giocattolo. Nè una bambola senza braccia e gambe o un'auto senza ruote gettata da altri bambini. Qualsiasi cosa avrebbe potuto lenire il dolore di questa silenziosa ferita invisibile.
She wandered all day barefoot in this skeletal landscape. The broken glass, the rusted pieces of the cans and the twisted irons were unable to hurt her. The real wound is opening now, at the end of the day. It is when the cold of the night begins to fall on the bare and desolate plain – an amalgam of debris that stretches to the horizon – that she realizes she has not found even a toy. Neither a doll without arms and legs nor a car without wheels thrown away by other children. Anything could have eased the pain of this invisible, silent, wound.
Non si può essere più poveri e dimenticati delle famiglie, padri, madri e figli, persino in fasce, che da generazioni vivono in una discarica alla periferia di Benguela, una città nel sud dell'Angola, dove curiosamente è nato il fotografo, João Coelho .
Corrono dietro ai camion della spazzatura per conquistare i loro mucchi di rifiuti, se no altri li prenderebbero. Tutta la giornata, dal più anziano al più giovane, setacciano i rifiuti, separando i più preziosi, lattine e vetri per il riciclaggio. Dagli scarti di cibo traggono anche il loro alimento, o barattano con altri come loro il necessario. La sera si ritirano nelle tende stracciate. Non hanno altro. Né l'avranno perché sono i dimenticati e gli invisibili per le nostre società voltate dall'altra parte – dalla parte della ricchezza.
Con il puntiglio del testimone e la curiosità dell'esploratore, João Coelho dopo la prima volta, nell'aprile 2021, è tornato altre due volte, a settembre 2021 – quando ha avuto, come conseguenza dell'aver respirato i fumi, un'infezione ai polmoni – e a marzo 2022, nella discarica per documentare con impressionanti immagini in bianco e nero la tragedia della discarica e dei “recuperanti” (il titolo di un film simile di Olmi). Le immagini restituiscono tutti i dettagli, gli odori, i gesti, nella mostra curata da Christine Enrile con Batsceba Hardy di Progressive Street, che è allestita a Palazzo Tagliaferro.
Diventando un amico oltre che testimone, João continua a esplorare la sua Angola natale alla ricerca di tutti i “dimenticati”. Eccolo in un lembo meridionale con le famiglie di diseredati fra le lamiere arrugginite di un cimitero d'automobili, anche qui la sopravvivenza dipende da quanto si può raccattare, magari pezzetti di rame preziosi frugando per terra. Su una spiaggia dell'Angola, montagne di gusci di crostacei sono state innalzate da quante, donne di ogni età, lavorano a estrarne la polpa. È una tradizione per una generazione e la seguente. Su queste montagne il fotografo ha immortalato la gioia improvvisa dei bambini che giocano a buttarsi giù, usando come slitte carapaci di tartarughe. Verso sera un fumo nero s'alza dai falò accesi sotto i pentoloni di cottura dei crostacei, il paesaggio divenuto apocalittico. Fissando quasi un termine ideale ai suoi reportage in queste lande, il fotografo ha immortalato i riti religiosi attorno ai baobab, le enormi deità vegetali il cui tronco massiccio rappresenta il Cristo e la corona la disseminazione dell'amore. Sul prato attorno al gigantesco albero – noto a tutti – si celebrano i raduni di fedeli. È l'estremo messaggio di questo grande fotografo al servizio degli ultimi della Terra.
I stumbled into these people's lives by accident, when I was once again visiting Benguela, the city where I was born in Angola. I remember the first time I returned to this place after an absence of almost 40 years, it was a very strong emotional experience. Now it happened again, when I met the people who live and work at this dump on the outskirts of the city. A flood of feelings and emotions overtook me and transformed my way of being and the way I position myself in the world.
Here I found, surprisingly and somewhat disconcertingly, genuine and unselfish people despite having nothing but the certainty that tomorrow will be as hard and difficult as today. Here I found extreme poverty on the edge of survival but I never felt threatened or insecure, as happens in cities where people have so much more and live a supposedly normal life. Here I found sadness but also joy and the will to live, here I found discouragement but also an enormous inner strength. Here I found extreme tiredness but also an admirable solidarity. Here I found pleading looks but also open and frank smiles. Here I found a place where, despite the desolation and the chaos of the landscape as far as the eye can see, I felt welcomed and to which I feel compelled to return. Here I felt like I was part of a family.
It is about this family of mine that I want to share some stories with you, to show you how they live here forgotten. How hard they work fighting for a tiny piece of wealth that allows them to survive, how children are born and live here without ever learning to read or write or know what lies behind the mountains they think are the end of the world they know, how women give birth relying only on the help of their mothers and grandmothers because that is the way it happened to them too, how they pray to the sky or some divine entity to provide them with some rain, or how death is accepted here as an imperative of a destiny they don't dare to question.
They may be forgotten, but no longer ignored. The great purpose of this exhibition and mine, as a photographer and a human being, is simply to scream. If all of you can amplify my scream in some way, maybe we can all be heard. Maybe in this way these people will be able to have access to a portion of the food that is thrown away every day, maybe these children will be able to discover the sea and the rivers that exist beyond the mountains, maybe they will learn to write their name and read poetry, maybe they will no longer have to despair while waiting for rain because they will have the right to have some water, maybe death here can be postponed if they have access to medical care. Maybe they can finally be more dignified human beings.
João Coelho
***
"Mi sono imbattuto per caso in queste persone e nella loro vita. Stavo visitando ancora una volta Benguela, la città dove sono nato in Angola. Ricordo che la prima volta che sono tornato, dopo quasi 40 anni, è stata una fortissima esperienza emotiva. È successo di nuovo, quando ho incontrato le persone che vivono e lavorano in questa discarica alla periferia della città. Una marea di sentimenti ed emozioni mi ha travolto e mi ha trasformato e ha trasformato il mio modo di relazionarmi al mondo.
Qui ho trovato, incredibilmente, persone genuine e disinteressate pur essendo consapevoli che il loro domani sarà duro e difficile come l'oggi. Qui ho trovato l'estrema povertà al limite della sopravvivenza, ma non mi sono mai sentito minacciato o insicuro, come accade nelle città dove le persone hanno molto di più e vivono una vita apparentemente normale. Qui ho trovato la tristezza ma anche la gioia e la voglia di vivere, qui ho trovato lo sconforto ma anche un'enorme forza interiore. Qui ho trovato una stanchezza estrema ma anche una solidarietà ammirevole. Qui ho trovato sguardi imploranti ma anche sorrisi aperti e schietti. Qui ho trovato un luogo dove, nonostante la desolazione e il caos del paesaggio a perdita d'occhio, mi sono sentito accolto e nel quale mi sento in dovere di tornare. Qui mi sono sentito parte di una famiglia.
È di questa mia famiglia che voglio condividere con voi alcune storie, per mostrarvi come vivono qui, dimenticate da tutti. Quanto lavorano duramente lottando per un minuscolo pezzo di ricchezza che gli permetta di sopravvivere; come nascono i bambini e vivono senza mai imparare a leggere o scrivere o sapere cosa si cela dietro le montagne che pensano siano la fine del mondo, come le donne partoriscono affidandosi solo all'aiuto delle loro madri e nonne perché è così che è successo anche a loro, come pregano il cielo o qualche entità divina per fornire loro un po' di pioggia, o come la morte qui è accettata come un imperativo di un destino che non osano mettere in discussione.
Possono essere stati dimenticati, ma io non posso più ignorarli. Lo scopo di questa mostra e il mio scopo personale, come fotografo e come essere umano, è proprio quello di urlare. E se tutti voi potete amplificare il mio grido in qualche modo, forse possiamo essere ascoltati. Forse in questo modo, queste persone potranno avere accesso a una parte del cibo che ogni giorno viene buttato via, forse questi bambini potranno scoprire il mare e i fiumi che esistono al di là delle montagne, forse impareranno a scrivere il loro nome e leggere poesie, forse non dovranno più disperarsi in attesa della pioggia perché avranno il diritto di avere un po' d'acqua, forse la morte qui può essere posticipata se hanno accesso alle cure mediche. Forse possono finalmente avere la dignità di esseri umani."
Sono nato in Angola nel 1964. La guerra di indipendenza ha costretto la mia famiglia a trasferirsi in Portogallo, io ho dovuto interrompere bruscamente l'adolescenza e ho ancora tanta nostalgia dei miei primi anni in Angola. In Portogallo ho completato gli studi laureandomi in giurisprudenza. Ho iniziato la mia carriera ma ben presto mi sono spostato nel settore bancario e finanziario. In risposta al richiamo della terra natale, quattordici anni fa ho colto un'opportunità di lavoro in Angola per sviluppare progetti di auditing e consulenza nell'ambito sociale. Ho sempre provato una forte attrazione per l'espressione scritta e visiva, letteratura, pittura, cinema, musica. La passione per la fotografia è stata una conseguenza naturale, e a vent'anni ho acquistato la mia prima macchina fotografica. Come autodidatta ho cercato di migliorarmi con la lettura di libri e pubblicazioni specializzate e attraverso vari tentativi, anche errori, sono riuscito a pubblicare dei servizi fotogiornalistici su alcune riviste in Portogallo, ma a causa degli impegni professionali ho lasciato da parte la fotografia per alcuni anni. Sono stati il ritorno in Angola e la convivenza quotidiana con i suoni, gli odori e i colori dell'Africa, nonché il contatto con storie di sopravvivenza, a risvegliare la mia passione, e la voglia di raccontare attraverso le immagini. Non è stato facile, ho dovuto superare parecchi ostacoli, come la paura di scattare fotografie in strada a causa dell'alto tasso di criminalità che esiste in Angola, e la tenace resistenza delle persone a farsi ritrarre, un'altra caratteristica a queste latitudini.
Ed eccomi a fotografare le persone e le loro storie, all'inizio timidamente, superando le barriere per conoscere veramente chi ho di fronte, il più delle volte storie di povertà, ma vi ho sempre trovato una straordinaria resilienza, amore e cameratismo anche quando non puoi immaginare un futuro a lieto fine. L'interazione con i miei soggetti mi ha portato ad adottare e affinare una tecnica fotografica ravvicinata, dove lo studio degli angoli di ripresa assume grande importanza. Attualmente sto usando una Canon R5 che Canon Portugal mi ha gentilmente prestato – in linea di principio la scambierò con la vecchia 5D Mk IV – e un nuovo obiettivo mirrorless grandangolare, un 14-35 mm. Il grandangolo mi permette di essere vicino ai soggetti e contemporaneamente di includere parte dell'ambiente. Talvolta utilizzo un obiettivo 80-200 mm se non voglio interferire con la scena ripresa o quando penso che i soggetti, come per esempio bambini, siano più rilassati senza la mia presenza ravvicinata.
L'Africa è conosciuta per i suoi colori esuberanti, ma il B/N è stata per me una scelta ovvia. Il mio scopo come fotografo e come persona è trasmettere emozioni, sentimenti, attirando l'attenzione sulle disuguaglianze e le asimmetrie che ancora esistono nel mondo in cui viviamo. Lo sguardo più dolce di un bambino ha una storia forte dietro. Se riesco in qualche modo a trasmetterlo, allora mi sento realizzato. L'editing e la post-produzione sono fasi importanti del mio lavoro, per garantire l'impatto e la bellezza delle immagini. Già nel momento della scelta le immagini devono soddisfarmi dal punto di vista narrativo, della composizione e della tecnica, prima che possa migliorare o ottimizzarne l'effetto con la conversione in B/N. Per il progetto qui in mostra, che ho chiamato “I dimenticati”, ho provato a usare immagini a colori, ma colori che non ci si aspetta dall’Africa e diventano quasi dei trasmettitori olfattivi. Il fatto di lavorare in una Paese difficile, non mi permette di uscire semplicemente per strada e di scattare liberamente, quindi devo studiare dei piani a lungo termine, che richiedono l'identificazione preventiva di luoghi con una certa sicurezza e che le persone accettino di essere fotografate nel loro ambiente. L'imprevista pandemia mi ha costretto ad annullare alcuni piani.
Il mio progetto fotografico in Africa si mescola con il mio progetto di vita, il desiderio di tornare dove sono nato. La consapevolezza e la tristezza nel vedere come le persone facciano fatica a vivere giorno per giorno, mi ha spinto in una direzione che non avrei preso se fossi vissuto in un Paese del ricco mondo industrializzato. I grandi maestri, come Sebastião Salgado, Dorothea Lange o Robert Frank, mi hanno ispirato e continuano a farlo; in particolare Salgado che trasmette messaggi sociali ed ecologici.
I was born in Angola in 1964. The war of independence forced my family to move to Portugal, my adolescence ended abruptly and I still miss my early years in Angola. In Portugal I completed my studies with a degree in law. I started my career but soon moved into banking and finance. In response to the lure of my homeland, fourteen years ago I took a job opportunity in Angola to develop social auditing and consulting projects. I have always felt a strong attraction for written and visual expression, literature, painting, cinema, music. The passion for photography was a natural consequence, and at the age of twenty, I bought my first camera. As self-taught I tried to improve my skills by reading books and specialized publications and through various attempts, even making mistakes, I managed to publish photojournalistic pieces in some magazines in Portugal, but due to professional commitments, I left photography aside for a few years. It was the return to Angola and the daily coexistence with the sounds, smells and colours of Africa, as well as the contact with survival stories, that awakened my passion, and the desire to tell stories through images. It was not easy, I had to overcome several obstacles, such as the fear of taking photographs on the street due to the high crime rate that exists in Angola, and the tenacious resistance of people to be portrayed, another characteristic in these latitudes.
But here I am photographing people and their stories, at first timidly, overcoming the barriers to really understand who is in front of me. Most of the time the stories are of poverty, but I have always found extraordinary resilience, love and comradeship even when it’s hard to imagine a future with a happy ending. The interaction with my subjects led me to adopt and refine a close-up photographic technique, where the study of shooting angles assumes greater importance. I'm currently using a Canon R5 that Canon Portugal kindly lent me to test. In principle I will swap with the old 5D Mk IV and a new wide-angle mirrorless lens, a 14-35 mm. The wide-angle allows me to be close to the subjects and at the same time to include part of the environment. Sometimes I use an 80-200mm lens if I don't want to interfere with the shooting scene or when I think that subjects, particularly children, are more relaxed if I’m not too close.
Africa is known for its exuberant colours, but B&W was an obvious choice for me. My aim as a photographer and as a person is to convey emotions, feelings, drawing attention to the inequalities and asymmetries that still exist in the world we live in. A child's sweetest look has a strong story behind it. If I can somehow pass it on, then I feel fulfilled. Editing and post-production are important phases of my work, to ensure the impact and beauty of the images. Already from the moment of choosing, the images must satisfy me from the viewpoints of narrative, composition and technique, before I can improve or optimize the effect with the conversion to B/W. For the project on show here, which I call 'The Forgotten', I tried to use colour images, but colours that are not expected from Africa and almost become olfactory transmitters. The fact that I work in a difficult country means that I can’t simply go out on the street and shoot freely, so I have to study long-term plans, which require the prior identification of places with certain safety and that people accept being photographed in their environment. The unexpected pandemic forced me to cancel some plans.
My photographic project in Africa mixes with my life project, the desire to go back to where I was born. The awareness and sadness of seeing how people struggle to live from day to day pushed me in a direction that I would not have taken if I had lived in a country of the rich industrialized world. The great masters, such as Sebastião Salgado, Dorothea Lange and Robert Frank, inspired me and continue to do so; in particular, Salgado who transmits social and ecological messages.
The Forgotten
This is the story of a family of ten: parents, children, grandchildren. For years they have been working on this landfill site on the outskirts of a city in southern Angola, living in makeshift tents. An apocalyptic scenario, up to the horizon mountains of garbage, which trucks collect in the city and unload here in bulk. Here live the poorest, the forgotten. We could also call them the invisible ones because they cannot be seen from the only road about 2 km away.
The family has to watch out for the arrival of the trucks and rush in because they never know where they are going to unload, otherwise someone else can grab the precious cargo.
The urban waste problem is very serious in Angola where everything, even recyclable materials are treated as just waste. 3.5 million tons of garbage are produced every year, of which about a third is in the capital of Luanda alone. With the current population growth rate, things will only get worse.
The garbage piled up in the open contains everything: plastic, cans, cartons, rags, glass, food scraps, waste from industries and animal farms, even carrion. The smell is sickening. Swarms of flies all over the place.
The family sifts the waste using curved-tipped irons. They are looking for anything that could have value and that after years of exhausting experience they know how to recognize.
They also rummage for something else for themselves, tattered clothes, old shoes, food. They often swap them with other landfill groups. There is no money here, everything is bartered. The men climb to the top of the piles of waste and throw down what they find, to the women who divide it into piles.
They work in silence. The only noise is the cavernous cough of those whose lungs are already attacked by pollution.
Sometimes you come across a smile that makes you feel at home, here at the end of the world where people are good on the inside and unhappy on the outside. Everyone in the family helps, even Ana, the youngest, who is already pregnant. Jorge, the eldest son, was blinded by conjunctivitis. They work in all conditions, even in the rain, until the last pile has been sifted. And it is worse when it does not rain and the dust of the earth, after months of drought, raised by the wind, mixes with the smoke.
When I returned the landscape hadn't changed, but the people had. Some had died, others had gone off in search of another destiny. Barefoot children sift through the garbage like little adults with mechanical gestures. But families will continue to have children because it is like hope for the future. Only at the end of the day can children rest for a while, play with the broken dolls thrown away, bake pies with sand, invent fun with what they find. Mothers work with babies on their backs, in a cloth (“kakunda” in the local language) tied around the body. They never abandon them, a demonstration of the enormous sacrifice and dedication to motherhood. At the end of the day the landscape changes. Men set fire to garbage to locate cans, the most coveted trophies because they can be sold for recycling. In the midst of toxic clouds, between flames and ashes, dark shapes wander. Eyes accustomed to darkness and trained to find.
The days here are always the same. We don't know how long this will go on. When will these people stop being the 'forgotten'? When will these children have the opportunity to grow up like everyone else?
Questa è la storia di una famiglia di dieci persone: genitori, figli, nipoti. Da anni lavorano in questa discarica alla periferia di una città nel sud dell'Angola, abitando in tende di fortuna. Uno scenario apocalittico, fino all'orizzonte montagne di spazzatura, che i camion raccolgono in città e scaricano qui alla rinfusa. Qui vivono i più poveri, i dimenticati. Potremmo chiamarli anche gli invisibili perché non si vedono dall'unica strada distante circa 2 km.
La famiglia sorveglia l'arrivo dei camion e si precipita correndo perché non si sa mai dove vanno a scaricare, altrimenti qualcun altro può arraffare il prezioso carico.
Il problema dei rifiuti urbani è gravissimo in Angola dove non esistono la raccolta differenziata e il trattamento dei rifiuti. Ogni anno si producono 3 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti, di cui circa un terzo nella sola capitale di Luanda. Con l'attuale tasso di crescita demografica, le cose peggioreranno.
La spazzatura ammassata all'aperto contiene di tutto: plastica, lattine, cartoni, stracci, vetri, avanzi di cibo, scorie di industrie e di allevamenti di animali, persino carogne. L'odore è nauseante. Nugoli di mosche dappertutto.
La famiglia setaccia l'immondizia utilizzando dei ferri dalla punta ricurva. Cercano tutto ciò che potrebbe avere un valore e che dopo anni di massacrante esperienza sanno riconoscere.
Frugano alla ricerca anche di altro per se stessi, vestiti a brandelli, scarpe vecchie, cibo. Spesso li scambiano con gli altri gruppi della discarica. Qui non esistono i soldi, tutto viene barattato. Gli uomini salgono in cima ai mucchi di rifiuti e gettano giù ciò che trovano, alle donne che lo suddividono in mucchi.
Si lavora in silenzio. L'unico rumore è la tosse cavernosa di chi ha i polmoni già attaccati dall'inquinamento.
Talvolta ci si imbatte in un sorriso che ti fa sentire a casa anche qui, alla fine del mondo dove le persone sono buone dentro e infelici fuori. Nella famiglia tutti aiutano, anche Ana, la più piccola, che è già incinta. Jorge, il figlio maggiore, è stato reso cieco dalla congiuntivite. Si lavora in qualunque condizione, anche sotto la pioggia, finché l'ultimo mucchio non è stato setacciato. Ed è peggio quando non piove e la polvere della terra, dopo mesi di siccità, sollevata dal vento si mescola al fumo.
Quando sono ritornato il paesaggio non era cambiato, ma le persone sì. Alcuni erano morti, altri se n'erano andati in cerca di un altro destino. I bambini a piedi nudi setacciano la spazzatura come piccoli adulti dai gesti meccanici. Ma le famiglie continueranno ad avere figli perché è come una speranza nel futuro. Solo alla fine della giornata i bambini possono riposarsi un po', giocare con le bambole rotte gettate via, fare torte con la sabbia, inventarsi il divertimento con quel che trovano. Le madri lavorano con i neonati sulla schiena, in un telo (“kakunda” nella lingua locale) legato attorno al corpo. Non li abbandonano mai, una dimostrazione dell'enorme sacrificio e della dedizione alla maternità. Alla fine della giornata il paesaggio si trasforma. Gli uomini danno fuoco alla spazzatura per individuare le lattine, i trofei più ambiti perché possono essere vendute per il riciclaggio. In mezzo a nubi tossiche, fra fiamme e ceneri, vagano sagome scure. Occhi abituati all'oscurità e allenati a trovare.
I giorni qui sono sempre uguali. Non sappiamo fino a quando. Quando queste persone smetteranno di essere i “dimenticati”? Quando questi bambini potranno crescere come tutti gli altri?